giovedì 20 dicembre 2012
sabato 10 novembre 2012
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martedì 6 novembre 2012
domenica 2 settembre 2012
mercoledì 22 agosto 2012
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lunedì 11 giugno 2012
lunedì 4 giugno 2012
mercoledì 30 maggio 2012
martedì 29 maggio 2012
mercoledì 16 maggio 2012
domenica 13 maggio 2012
lunedì 7 maggio 2012
giovedì 3 maggio 2012
lunedì 30 aprile 2012
Alla volta di Leucade: Tre poesie edite di Giorgina Busca Gernetti
Alla volta di Leucade: Tre poesie edite di Giorgina Busca Gernetti: LA PAROLA ALATA in memoria di Peter Russel «È buia la mia stanza, o forse...
venerdì 27 aprile 2012
giovedì 26 aprile 2012
sabato 14 aprile 2012
martedì 10 aprile 2012
sabato 7 aprile 2012
martedì 7 febbraio 2012
"VIA PIRANDELLO" in "DEDALUS" n. 1
VIA PIRANDELLO
Livia conosceva molto bene
Taormina. Avrebbe potuto descriverne a occhi chiusi ogni strada, piazza,
fontana, chiesa, palazzo, portale. Avrebbe potuto disegnarne la piantina e
soprattutto riprodurre, elemento per elemento, lo splendido Teatro greco-romano
dalla “scena” purtroppo spaccata in due parti, dietro la quale s’innalza nel
cielo azzurro la vetta innevata o fumante dell’Etna, campeggiando come un
maestoso fondale per la rappresentazione delle tragedie greche: titanici i
personaggi, titanico lo scenario.
Aveva studiato nei libri di
archeologia o di turismo culturale la storia e l’aspetto della piccola città
distesa su una terrazza dominata dal Monte Tauro (da cui l’antico nome greco Tauromenion) e prospiciente sullo Jonio
dalle acque limpidissime color dell’indaco, rese ancor più luminose dal sole
che splende dal suo sorgere fino al primo pomeriggio, poiché Taormina è
adagiata sul versante orientale del monte. Ma, anche dopo che il sole si è
nascosto dietro l’altura, l’acqua marina, sebbene più cupa, non perde il suo
fascino di gemma.
E quel giorno la rivedeva
con immutata meraviglia. Era poi entrata nelle bottegucce di Corso Umberto ad
acquistare cartoline che non spediva, ma serbava di volta in volta insieme a
piccoli oggetti di pietra lavica, al profumo di zagara in minuscole boccette
e…al carrettino siciliano in miniatura. Ormai ne aveva collezionata una ricca
serie, non è chiaro se perché le piacesse l’atto di acquistarne uno, scegliendo
con cura quello che le sembrava perfetto, con il cavallino bianco, altre volte
nero, oppure perché avesse dimenticato che la fila di carrettini, su un ripiano
della libreria, era ormai lunghissima.
Poteva dunque vagare per
Taormina senza alcun rischio di smarrirsi anche nei vicoli medioevali o su e
giù per le piccole scalinate. Non se l’era cavata egregiamente persino a
Palermo, da sola nella Vuccirìa, o ad
Atene, per le stradine della Plaka?
Ma quel giorno la sua mente
era un poco turbata e forse ottenebrata dagli oscuri pensieri che un tempo la
tormentavano senza tregua, mentre da almeno un anno si erano sopiti nel suo
subconscio grazie a una vita più serena, confortata anche da qualche
chiacchierata con lo psicanalista. Se n’era accorta già al mattino, appena si
era svegliata con quel mal di testa
che ben conosceva: una strettissima morsa alle tempie. «Sarà colpa del vento!»
disse fra sé per sminuire la tensione; infatti, nella città in cui viveva,
l’arrivo di un forte vento si preannunciava in lei con l’insonnia seguita da un
grave mal di testa per tutta la giornata. Ma in Sicilia no, non era mai
successo, poiché il vento nella splendida isola spira sempre benevolo in ogni
luogo, ora come lieve brezza che scompiglia i capelli, ora come un succedersi
di folate che increspano la superficie del mare o fanno leggermente piegare le
altissime palme delle “ville”, cioè dei giardini.
Qualcosa dunque non andava
bene in lei, ma non aveva voluto rinunciare a Taormina, la cui visita era già
stata fissata per quel giorno nel lungo viaggio che stava compiendo con suo
marito in quella che denominava “isola del sole”, “isola dei miti”.
Avevano dunque passeggiato a
lungo insieme per la vetusta e illustre città
greca/romana/medioevale/rinascimentale/barocca, soffermandosi davanti agli
armoniosi palazzi signorili, oppure ammirando le facciate e i silenziosi
interni delle splendide chiese che testimoniano, nella commistione degli stili,
la complessa storia della città attraverso i secoli, anzi, i millenni e
denotano, insieme con i palazzi, la presenza in ogni epoca di Signori amanti
dell’arte.
Avevano contemplato, quasi
senza avere la forza di staccarsene, il Teatro e la magnifica vista sul mare,
fin quasi alla Calabria, poiché il cielo era limpido grazie al vento che ne
aveva dissolta la foschìa. Il mare era color dell’indaco e l’Isola Bella
splendeva come una gemma posata su un drappo increspato e luminoso.
Ma ormai era tempo di
ripartire, tornando all’automobile lasciata, come le altre volte, in Via
Pirandello¹, adiacente alla Porta Messina. L’avevano quasi raggiunta quando
Livia si ricordò del carrettino siciliano: aveva, infatti, dimenticato di
cercarlo in qualche altro negozietto poiché nel grande emporio, in cui avevano
acquistato il profumo, erano ormai esauriti i carrettini in miniatura. Lasciò
frettolosamente il marito promettendo di ritornare il più presto possibile;
egli rispose che intanto si sarebbe avviato verso l’auto e l’avrebbe aspettata
lì, senza spostarsi da Via Pirandello.
Livia camminò accanto al bel
portale senza fermarsi ad ammirarlo, percorse velocemente quasi la metà di
Corso Umberto e si ritenne fortunata: in una botteguccia seminascosta vide
proprio in vetrina i suoi amati carrettini. Ne comprò uno con il cavallino nero
e uscì in fretta per raggiungere il marito.
Quando passò sotto l’arco
del portale sentì una scossa e poi un lungo brivido che la percorse tutta.
Eppure faceva ancora molto caldo, benché il sole incominciasse a declinare
all’orizzonte. Non si ricordò bene dove avessero lasciata l’automobile e dove
il marito l’attendesse. Non vedeva parcheggi da quelle parti. Non vedeva il
marito, che forse era seduto al volante. Ma dov’era l’auto? Non ne vedeva
nessuna accanto a Porta Messina. Si sentiva la testa confusa come se si fosse
svegliata da un sonno pesante, anzi, da una notte di febbre alta e d’incubi.
Non ricordava più nulla!
Nemmeno il colore e la forma dell’auto presa a noleggio all’aeroporto e usata
da almeno una settimana. Soprattutto non ricordava dove l’avessero lasciata
molte ora prima.
In quel momento non fu più sicura neppure del suo
nome, della sua identità. Sapeva solo che stava cercando un uomo e
un’automobile, ma ignorava dove cercarli. Provò un profondo senso di
smarrimento, di vero e proprio terrore, tanto che tremava e sudava stringendo
in mano il carrettino siciliano chiuso nel cellofan.
Si fece coraggio e chiese a
un passante dove fosse il parcheggio più vicino. Le fu risposto che quasi tutti
i turisti lasciavano l’auto a Mazzarò, presso il mare, e salivano a Taormina in
funivia. Ma Livia non era salita in funivia; almeno di questo era certa perché
ne aveva paura, dopo una brutta esperienza in montagna e la decisione di non
usare mai più quel mezzo, anche se per un breve tragitto. Chiese a un altro
passante dove fosse il parcheggio più frequentato, escluso quello di Mazzarò.
Si sentì dire che si trovava più in basso, sul pianoro a metà della strada a
tornanti che conduce a Taormina. Doveva dunque scendere per almeno un
chilometro. Che strano! Non ricordava di aver camminato così a lungo in salita
dopo aver parcheggiata l’auto, per di più sotto il sole cocente della tarda
mattinata di luglio.
Ma il terrore che ormai
l’attanagliava la spinse a scendere quasi di corsa per quella strada intasata
dalle auto che salivano o scendevano sfiorandosi. Più che aria respirava gas e
si sentiva soffocare, presa ormai dal panico e sconvolta dalla mancanza di
orientamento. Era già passata quasi un’ora da quando aveva lasciato il marito
dicendo che avrebbe fatto molto in fretta.
Ad un tratto le auto si
fermarono tutte ai margini della strada e Livia ne approfittò per camminare più
speditamente in discesa, verso il grande parcheggio sul pianoro. Ma la sua lena
fu interrotta da un’amara scoperta: da una strada laterale scendeva un carro
funebre coperto di rose bianche, seguito da un lungo corteo di auto scure
anch’esse ornate di corone floreali. Quando il carro funebre imboccò la strada
in salita verso Taormina, Livia riuscì a leggere la scritta d’oro sul nastro
che adornava la corona di giunchiglie appesa dietro l’auto: «Giorgio e Michela,
marito e figlia dolenti».
Si sentì mancare: erano i
nomi di suo marito e di sua figlia! Allora era il suo funerale. Era lei la donna dentro quella bara. Era morta! Era
dunque un’ombra che vagava tra i vivi, cercando qualcuno e qualcosa che
appartenevano a un mondo da cui era ormai esclusa. Però sentì nella sua mano il
carrettino che quasi le pungeva il palmo con le zampette sottili del cavallino.
Sentì scorrere delle gocce lungo le gote. Non poteva essere pioggia poiché il
cielo era ancora limpido e azzurro. Allora erano lacrime! Quindi era viva
perché le ombre sono inconsistenti, non hanno sangue, carne, ossa, occhi,
palpebre, lacrime! Il funerale dunque non era suo, ma di una donna che per
caso aveva un marito e una figlia con gli stessi nomi dei suoi.
Però il funerale fu causa di
una nuova apprensione, quasi di un funesto presagio. Non sapeva più che cosa
fare, a chi rivolgersi, dove andare. Era una situazione veramente
pirandelliana, soprattutto per il caso
singolare dell’omonimia nel funerale. All’improvviso le venne quasi un’illuminazione:
Pirandello! Ma perché proprio quel nome le dava un senso di sicurezza, quasi di
salvezza? «Pirandello, Pirandello, Pirandello!» ripeteva tra sé e sé, forse ad
alta voce.
«Ma signora, se cerca Via
Pirandello deve risalire fino a Porta Messina, non scendere! Però non deve
entrare dal portale: la troverà fuori, subito a sinistra.»
Allora tutto le fu chiaro:
non si trattava di un vero e proprio parcheggio, ma di una lunga strada in cui,
con un po’ di fortuna, si poteva trovare un posto libero per l’auto ed essi,
quel mattino, dovevano proprio essere stati fortunati. Certamente l’auto
azzurrina (ora lo ricordava bene) e il marito, chissà quanto spaventato per la
sua lunga assenza, dovevano essere proprio lì, in Via Pirandello.
Risalì quasi di corsa la
strada a tornanti superando anche il corteo funebre che procedeva lentamente.
Si fece il segno della Croce ma non guardò i nomi scritti sul nastro della
corona di giunchiglie: ormai non le interessava più sapere se fosse un
singolare caso di omonimia o se lei, in preda al panico, avesse letto con la
fantasia i nomi dei suoi cari, deducendone che era morta e che stava immobile
in quella bara. Era certamente viva se correva su per quella strada in salita,
dove, proprio alla fine, vide suo marito con un viso stralunato, terrorizzato,
quasi tra le braccia di un Carabiniere che cercava di calmarlo e rassicurarlo,
promettendo di incominciare subito la ricerca della moglie sparita nel nulla.
Livia si gettò fra le
braccia del marito e disse tra le lacrime: «Non ricordavo più nulla. Non sapevo
dov’era l’automobile. Sono corsa su e giù verso i parcheggi. C’era anche un
funerale!».
«Eppure ti avevo detto che
ti avrei aspettata in Via Pirandello! Non mi sarei mosso di lì mentre andavi a
comprare il carrettino. Eravamo d’accordo così!»
Si accorse che stringeva
convulsamente in mano qualcosa. Aprì lentamente le dita e vide il suo
carrettino siciliano con il cavallino nero. Per fortuna era ancora intatto.
1 – La vicenda narrata è avvenuta prima che fosse costruito il
grandissimo parcheggio a più piani ai piedi del colle, sulla cui vetta si
arriva con l’ascensore presso Porta Catania, opposta a Porta Messina.
giovedì 2 febbraio 2012
"MIRAGGIO A SEGESTA" in "DEDALUS" n.1
MIRAGGIO A SEGESTA
Il tempio
sembrava ancora più bianco nella luminosità accecante del meriggio di luglio;
si stagliava nitido controluce sullo sfondo del fitto verde circostante, nella
conca formata dalle alture che paiono proteggere in un abbraccio il sacro
edificio plurimillenario.
Elena abbandonò
molto volentieri i chiassosi turisti seduti ai tavolini del bar sotto il
pergolato e s’incamminò sola verso il tempio, senza voltarsi nemmeno
impercettibilmente per timore che qualcuno volesse unirsi a lei nella visita.
La canicola, per sua fortuna, dissuadeva tutti gli altri che all’archeologia
preferivano la frescura sotto la pergola.
Salì lentamente
la scala dai bassi gradini, passando accanto ad una grossissima agave nata
chissà quando presso quella scalinata, quasi alla sua fine, ove essa
s’interrompe e lascia posto a un piccolo pianoro davanti alla facciata
orientale del tempio.
Elena salì quasi
con esitazione i tre scalini dello stilobate, come se l’edificio, dopo molto
più di duemila anni, conservasse ancora il senso arcano dei luoghi consacrati
al culto degli dèi. Passando tra le colonne doriche ormai corrose dal vento e
dal tempo, ma ancora tanto solide da poter reggere il fregio e il timpano,
entrò nel vasto spazio interno del tempio tutto illuminato, poiché la mancanza
totale della copertura non opponeva alcuno schermo ai fiammeggianti raggi del
sole canicolare che splendeva rutilante a picco sull’edificio, allo Zenit della
volta celeste limpida e azzurra, quasi irreale nella sua perfezione cromatica.
Il bel cappello
di paglia di Firenze, ornato da un mazzolino di miosotidi, acquistato la
domenica precedente nell’isola di Ustica bruciata dal sole, restava tra le sue
mani poiché voleva godersi tutta quella luce, tutto quel sole tanto desiderati
quando si rattristava nella foschìa o nella nebbia della sua città.
Brevi erano le
ombre delle colonne doriche, ormai quasi prive delle scanalature, ed anche il
timpano stampava sul terreno polveroso un triangolo tanto sottile da sembrare
impercettibile. Un poco più d’ombra si formava tra le colonne del lato lungo,
ove la trabeazione correva ininterrotta fino alla facciata occidentale, creando
due linee oscure che parevano invitare a sedersi per ripararsi da quella
soffocante calura.
Spirava una
brezza incredibilmente fresca tra quelle colonne, tanto ristoratrice quanto
l’ombra a confronto con l’afa e la luce accecante del tempio vuoto, ove in
passato sorgeva la cella arcana per i riti sacri, ora invece soltanto polvere e
pietre ammassate alla rinfusa.
Elena si sedette
tra la quarta e la quinta colonna di sinistra, superando i primi spazi
ombreggiati in cui le pietre erano troppo sbrecciate per offrire un sedile,
benché un cane vi dormisse tranquillo e beato godendosi la frescura e la
solitudine del luogo, lontano dal chiasso dei turisti seduti giù al bar, sotto
il pergolato.
Due solitari
felici!
Serena e
appagata, Elena si sedette sulla pietra bianca, appoggiò la schiena a una delle
due colonne che formavano il suo “rifugio” e sollevò le gambe, poggiando i
piedi sul libretto turistico per rispetto verso quel marmo bianco. Guardò
lentamente il tempio dall’interno, quasi pietra per pietra, colonna per
colonna, capitello per capitello. Se da lontano, nonostante la mancanza della
copertura, l’edificio pareva miracolosamente intatto (e, in effetti, è uno dei
meglio conservati), da vicino le offese del tempo erano molto visibili quasi
dappertutto. La brezza continuava a spirare tra le colonne, mentre fuori, nella
luce abbagliante, sugli alberi lungo le pendici del colle impazzavano le
cicale, forse a centinaia o a migliaia, tanto sonoro e armonicamente complesso
era il loro frinire.
Ad un tratto,
però, Elena ebbe l’impressione che quel suono mutasse in qualcosa, forse nel
timbro, forse nell’intensità delle voci, quasi che altre cicale dal frinire
diverso si fossero aggiunte a quelle che già affollavano la vallata. Ma no! Non
erano altre cicale. Ben presto le fu chiaro che si trattava di un suono molto
diverso dal frinire chiassoso tra i rami: era il suono di sistri, di cembali,
di crotali sempre più vicino e perciò ormai ben distinto dalle voci dell’estate
mediterranea.
Elena sporse un
poco il capo fuori dalla zona d’ombra delle colonne per capire e, forse, vedere
chi producesse quella musica molto ritmata, ora lenta e malinconica, ora vivace
e stridula nei toni acuti. Spinse lo sguardo fin fuori del tempio, riuscendo a
vedere, tra le colonne della facciata, lo spazio esterno, il piccolo pianoro,
l’immensa agave, la scalinata almeno fino a metà.
Ed ecco apparire
dapprima solo il capo, poi lentamente il busto, poi la figura intera coperta di
una leggera tunica color porpora, mossa da morbide pieghe ed armoniosi
drappeggi, una donna dai capelli corvini raccolti sul capo alla foggia dei
Greci antichi, ornati di un diadema d’oro che riluceva nella chiarìa meridiana.
Reggeva in mano un canestro ricolmo di frutti, tra i quali sporgevano spighe
mature e fiori di campo multicolori.
Dietro di lei, a
due a due, salivano la scala dodici fanciulle vestite di tuniche bianche,
anch’esse con i capelli acconciati alla greca, ma cinti da coroncine di fiori
da cui spuntavano spighe disposte a raggiera. Alcune di loro agitavano i
sistri, altre battevano ritmicamente i cembali, altre ancora facevano
schioccare i crotali accostando abilmente le dita al palmo della mano. La
musica seguiva un ritmo lento, pacato, con vibrazioni che si prolungavano
nell’aria con un effetto straniante, tranne che nei momenti in cui i sistri,
emettendo il loro suono acuto e stridulo, veloce come il frinire delle cicale,
superavano fino al parossismo gli altri suoni producendo un senso d’eccitazione.
Il corteo saliva
con atteggiamento devoto, gradino per gradino, con lentezza ieratica, finché la
sacerdotessa dalla tunica porporina, giunta ormai sul pianoro, si fermò ai
piedi dei tre scalini che conducono allo stilobate; si volse verso le fanciulle
biancovestite, fermatesi anch’esse dopo essersi disposte a semicerchio sul
pianoro, sei alla sua sinistra, sei alla sua destra, e fece un lieve cenno col
capo come se volesse ordinare loro di attenderla lì fuori, durante il rito
arcano che ella avrebbe celebrato da sola nel tempio.
La musica
s’interruppe e le fanciulle rimasero ferme reggendo in mano gli strumenti ormai
silenziosi: nelle loro pose armoniose parevano statue greche.
La sacerdotessa
entrò nel tempio e avanzò fino al centro; si fermò e, innalzando il canestro di
frutti della terra, sembrò offrirli al sole che splendeva nell’ampio rettangolo
di cielo azzurro racchiuso tra il colonnato. Rimase ferma in quella postura a
lungo, forse pregando sottovoce; poi depose a terra il canestro e ne trasse fuori
le spighe dorate e i fiori vivacemente colorati che, ruotando lentamente il
corpo fiammante di porpora, gettò attorno a sé ad uno ad uno, alternati alle
spighe, in un cerchio perfetto.
Dopo aver
fissato a lungo il sole, sopportandone l’intensa luce con una forza che
probabilmente le veniva infusa dall’estasi mistica, levò in alto le braccia con
il gesto tipico dell’orante e iniziò un canto in forma di litania, in cui
ripeteva spesso una parola brevissima, forse un’invocazione, pronunciata con
solenne intensità: «Iò! Iò!».
Terminato il
canto con una triplice invocazione, la sacerdotessa uscì lentamente dal tempio
silenzioso, fece un cenno alle fanciulle perché riprendessero la processione e
si diresse verso la scalinata. Postesi in fila dietro di lei, le fanciulle
ricominciarono a suonare i loro strumenti e scesero anch’esse, seguendola a
passo a passo finché, giunte ormai in fondo alla scala, non scomparvero
totalmente alla vista. I loro corpi, mentre scendevano, erano diafani, tanto
che dietro di loro appariva in tutta la sua concretezza l’immensa agave, che
spandeva le sue lunghe e grasse foglie accanto alla scala.
Elena aveva
ammirato tutto in silenzio, attonita ma non incredula; era quasi estasiata come
se avesse partecipato anche lei al sacro rito in onore di una divinità
protettrice della terra, dell’agricoltura e delle stagioni. Forse Demetra o
un’ignota divinità indigena? Ma che cosa importava in quel momento unico, quasi
fuori del tempo!
Era ancora
abbandonata a quello stato d’animo tra la smemoratezza di sé, la meraviglia e
una certa commozione quando la riscosse la voce improvvisa di uno dei turisti,
che forse l’aveva notata mentre saliva al tempio da cui non era più discesa:
«Signora, la navetta verso la stazione ferroviaria sta per partire. Dovrebbe
scendere subito con me. Si era addormentata in questo bel posto?». «Credo
proprio di sì.» rispose Elena mentendo: non voleva assolutamente rivelare a uno
sconosciuto il suo miraggio, perché di miraggio si trattava certamente.
«Il mio cappello!»
esclamò quando raccolse il libretto sul tempio di Segesta accanto al quale
aveva posato il suo bel ricordo di Ustica, badando di non calpestarlo con i
piedi quando si era rincantucciata comodamente tra le due colonne.
«Sarà volato
via! Con questo venticello è facile.» replicò il turista. «Ora lo cerchiamo
lungo il pendio, ma facciamo presto, signora, altrimenti rischiamo di perdere
la navetta!»
Elena corse in
fretta per arrivare da sola prima di lui. Aveva visto il suo cappello poco più
giù in un piccolo prato pianeggiante. Lo raggiunse, allungò la mano e rimase
attonita: accanto al mazzetto di miosotidi c’erano tre spighe dorate e tre
fiori di campo rossi, tre grossi papaveri. I petali erano freschi come di fiori
appena colti e le spighe erano turgide.
Raccolse il
cappello e tenne ben nascosti dietro di esso i papaveri e le spighe. Il dono
della sacerdotessa di Segesta era un segreto suo, soltanto suo.Giorgina Busca Gernetti, in Dedalus n. 1, Puntoacapo, Novi Ligure 2011
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