MIRAGGIO A SEGESTA
Il tempio
sembrava ancora più bianco nella luminosità accecante del meriggio di luglio;
si stagliava nitido controluce sullo sfondo del fitto verde circostante, nella
conca formata dalle alture che paiono proteggere in un abbraccio il sacro
edificio plurimillenario.
Elena abbandonò
molto volentieri i chiassosi turisti seduti ai tavolini del bar sotto il
pergolato e s’incamminò sola verso il tempio, senza voltarsi nemmeno
impercettibilmente per timore che qualcuno volesse unirsi a lei nella visita.
La canicola, per sua fortuna, dissuadeva tutti gli altri che all’archeologia
preferivano la frescura sotto la pergola.
Salì lentamente
la scala dai bassi gradini, passando accanto ad una grossissima agave nata
chissà quando presso quella scalinata, quasi alla sua fine, ove essa
s’interrompe e lascia posto a un piccolo pianoro davanti alla facciata
orientale del tempio.
Elena salì quasi
con esitazione i tre scalini dello stilobate, come se l’edificio, dopo molto
più di duemila anni, conservasse ancora il senso arcano dei luoghi consacrati
al culto degli dèi. Passando tra le colonne doriche ormai corrose dal vento e
dal tempo, ma ancora tanto solide da poter reggere il fregio e il timpano,
entrò nel vasto spazio interno del tempio tutto illuminato, poiché la mancanza
totale della copertura non opponeva alcuno schermo ai fiammeggianti raggi del
sole canicolare che splendeva rutilante a picco sull’edificio, allo Zenit della
volta celeste limpida e azzurra, quasi irreale nella sua perfezione cromatica.
Il bel cappello
di paglia di Firenze, ornato da un mazzolino di miosotidi, acquistato la
domenica precedente nell’isola di Ustica bruciata dal sole, restava tra le sue
mani poiché voleva godersi tutta quella luce, tutto quel sole tanto desiderati
quando si rattristava nella foschìa o nella nebbia della sua città.
Brevi erano le
ombre delle colonne doriche, ormai quasi prive delle scanalature, ed anche il
timpano stampava sul terreno polveroso un triangolo tanto sottile da sembrare
impercettibile. Un poco più d’ombra si formava tra le colonne del lato lungo,
ove la trabeazione correva ininterrotta fino alla facciata occidentale, creando
due linee oscure che parevano invitare a sedersi per ripararsi da quella
soffocante calura.
Spirava una
brezza incredibilmente fresca tra quelle colonne, tanto ristoratrice quanto
l’ombra a confronto con l’afa e la luce accecante del tempio vuoto, ove in
passato sorgeva la cella arcana per i riti sacri, ora invece soltanto polvere e
pietre ammassate alla rinfusa.
Elena si sedette
tra la quarta e la quinta colonna di sinistra, superando i primi spazi
ombreggiati in cui le pietre erano troppo sbrecciate per offrire un sedile,
benché un cane vi dormisse tranquillo e beato godendosi la frescura e la
solitudine del luogo, lontano dal chiasso dei turisti seduti giù al bar, sotto
il pergolato.
Due solitari
felici!
Serena e
appagata, Elena si sedette sulla pietra bianca, appoggiò la schiena a una delle
due colonne che formavano il suo “rifugio” e sollevò le gambe, poggiando i
piedi sul libretto turistico per rispetto verso quel marmo bianco. Guardò
lentamente il tempio dall’interno, quasi pietra per pietra, colonna per
colonna, capitello per capitello. Se da lontano, nonostante la mancanza della
copertura, l’edificio pareva miracolosamente intatto (e, in effetti, è uno dei
meglio conservati), da vicino le offese del tempo erano molto visibili quasi
dappertutto. La brezza continuava a spirare tra le colonne, mentre fuori, nella
luce abbagliante, sugli alberi lungo le pendici del colle impazzavano le
cicale, forse a centinaia o a migliaia, tanto sonoro e armonicamente complesso
era il loro frinire.
Ad un tratto,
però, Elena ebbe l’impressione che quel suono mutasse in qualcosa, forse nel
timbro, forse nell’intensità delle voci, quasi che altre cicale dal frinire
diverso si fossero aggiunte a quelle che già affollavano la vallata. Ma no! Non
erano altre cicale. Ben presto le fu chiaro che si trattava di un suono molto
diverso dal frinire chiassoso tra i rami: era il suono di sistri, di cembali,
di crotali sempre più vicino e perciò ormai ben distinto dalle voci dell’estate
mediterranea.
Elena sporse un
poco il capo fuori dalla zona d’ombra delle colonne per capire e, forse, vedere
chi producesse quella musica molto ritmata, ora lenta e malinconica, ora vivace
e stridula nei toni acuti. Spinse lo sguardo fin fuori del tempio, riuscendo a
vedere, tra le colonne della facciata, lo spazio esterno, il piccolo pianoro,
l’immensa agave, la scalinata almeno fino a metà.
Ed ecco apparire
dapprima solo il capo, poi lentamente il busto, poi la figura intera coperta di
una leggera tunica color porpora, mossa da morbide pieghe ed armoniosi
drappeggi, una donna dai capelli corvini raccolti sul capo alla foggia dei
Greci antichi, ornati di un diadema d’oro che riluceva nella chiarìa meridiana.
Reggeva in mano un canestro ricolmo di frutti, tra i quali sporgevano spighe
mature e fiori di campo multicolori.
Dietro di lei, a
due a due, salivano la scala dodici fanciulle vestite di tuniche bianche,
anch’esse con i capelli acconciati alla greca, ma cinti da coroncine di fiori
da cui spuntavano spighe disposte a raggiera. Alcune di loro agitavano i
sistri, altre battevano ritmicamente i cembali, altre ancora facevano
schioccare i crotali accostando abilmente le dita al palmo della mano. La
musica seguiva un ritmo lento, pacato, con vibrazioni che si prolungavano
nell’aria con un effetto straniante, tranne che nei momenti in cui i sistri,
emettendo il loro suono acuto e stridulo, veloce come il frinire delle cicale,
superavano fino al parossismo gli altri suoni producendo un senso d’eccitazione.
Il corteo saliva
con atteggiamento devoto, gradino per gradino, con lentezza ieratica, finché la
sacerdotessa dalla tunica porporina, giunta ormai sul pianoro, si fermò ai
piedi dei tre scalini che conducono allo stilobate; si volse verso le fanciulle
biancovestite, fermatesi anch’esse dopo essersi disposte a semicerchio sul
pianoro, sei alla sua sinistra, sei alla sua destra, e fece un lieve cenno col
capo come se volesse ordinare loro di attenderla lì fuori, durante il rito
arcano che ella avrebbe celebrato da sola nel tempio.
La musica
s’interruppe e le fanciulle rimasero ferme reggendo in mano gli strumenti ormai
silenziosi: nelle loro pose armoniose parevano statue greche.
La sacerdotessa
entrò nel tempio e avanzò fino al centro; si fermò e, innalzando il canestro di
frutti della terra, sembrò offrirli al sole che splendeva nell’ampio rettangolo
di cielo azzurro racchiuso tra il colonnato. Rimase ferma in quella postura a
lungo, forse pregando sottovoce; poi depose a terra il canestro e ne trasse fuori
le spighe dorate e i fiori vivacemente colorati che, ruotando lentamente il
corpo fiammante di porpora, gettò attorno a sé ad uno ad uno, alternati alle
spighe, in un cerchio perfetto.
Dopo aver
fissato a lungo il sole, sopportandone l’intensa luce con una forza che
probabilmente le veniva infusa dall’estasi mistica, levò in alto le braccia con
il gesto tipico dell’orante e iniziò un canto in forma di litania, in cui
ripeteva spesso una parola brevissima, forse un’invocazione, pronunciata con
solenne intensità: «Iò! Iò!».
Terminato il
canto con una triplice invocazione, la sacerdotessa uscì lentamente dal tempio
silenzioso, fece un cenno alle fanciulle perché riprendessero la processione e
si diresse verso la scalinata. Postesi in fila dietro di lei, le fanciulle
ricominciarono a suonare i loro strumenti e scesero anch’esse, seguendola a
passo a passo finché, giunte ormai in fondo alla scala, non scomparvero
totalmente alla vista. I loro corpi, mentre scendevano, erano diafani, tanto
che dietro di loro appariva in tutta la sua concretezza l’immensa agave, che
spandeva le sue lunghe e grasse foglie accanto alla scala.
Elena aveva
ammirato tutto in silenzio, attonita ma non incredula; era quasi estasiata come
se avesse partecipato anche lei al sacro rito in onore di una divinità
protettrice della terra, dell’agricoltura e delle stagioni. Forse Demetra o
un’ignota divinità indigena? Ma che cosa importava in quel momento unico, quasi
fuori del tempo!
Era ancora
abbandonata a quello stato d’animo tra la smemoratezza di sé, la meraviglia e
una certa commozione quando la riscosse la voce improvvisa di uno dei turisti,
che forse l’aveva notata mentre saliva al tempio da cui non era più discesa:
«Signora, la navetta verso la stazione ferroviaria sta per partire. Dovrebbe
scendere subito con me. Si era addormentata in questo bel posto?». «Credo
proprio di sì.» rispose Elena mentendo: non voleva assolutamente rivelare a uno
sconosciuto il suo miraggio, perché di miraggio si trattava certamente.
«Il mio cappello!»
esclamò quando raccolse il libretto sul tempio di Segesta accanto al quale
aveva posato il suo bel ricordo di Ustica, badando di non calpestarlo con i
piedi quando si era rincantucciata comodamente tra le due colonne.
«Sarà volato
via! Con questo venticello è facile.» replicò il turista. «Ora lo cerchiamo
lungo il pendio, ma facciamo presto, signora, altrimenti rischiamo di perdere
la navetta!»
Elena corse in
fretta per arrivare da sola prima di lui. Aveva visto il suo cappello poco più
giù in un piccolo prato pianeggiante. Lo raggiunse, allungò la mano e rimase
attonita: accanto al mazzetto di miosotidi c’erano tre spighe dorate e tre
fiori di campo rossi, tre grossi papaveri. I petali erano freschi come di fiori
appena colti e le spighe erano turgide.
Raccolse il
cappello e tenne ben nascosti dietro di esso i papaveri e le spighe. Il dono
della sacerdotessa di Segesta era un segreto suo, soltanto suo.Giorgina Busca Gernetti, in Dedalus n. 1, Puntoacapo, Novi Ligure 2011
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