martedì 7 febbraio 2012

"VIA PIRANDELLO" in "DEDALUS" n. 1

VIA PIRANDELLO

      Livia conosceva molto bene Taormina. Avrebbe potuto descriverne a occhi chiusi ogni strada, piazza, fontana, chiesa, palazzo, portale. Avrebbe potuto disegnarne la piantina e soprattutto riprodurre, elemento per elemento, lo splendido Teatro greco-romano dalla “scena” purtroppo spaccata in due parti, dietro la quale s’innalza nel cielo azzurro la vetta innevata o fumante dell’Etna, campeggiando come un maestoso fondale per la rappresentazione delle tragedie greche: titanici i personaggi, titanico lo scenario.
Aveva studiato nei libri di archeologia o di turismo culturale la storia e l’aspetto della piccola città distesa su una terrazza dominata dal Monte Tauro (da cui l’antico nome greco Tauromenion) e prospiciente sullo Jonio dalle acque limpidissime color dell’indaco, rese ancor più luminose dal sole che splende dal suo sorgere fino al primo pomeriggio, poiché Taormina è adagiata sul versante orientale del monte. Ma, anche dopo che il sole si è nascosto dietro l’altura, l’acqua marina, sebbene più cupa, non perde il suo fascino di gemma.
E quel giorno la rivedeva con immutata meraviglia. Era poi entrata nelle bottegucce di Corso Umberto ad acquistare cartoline che non spediva, ma serbava di volta in volta insieme a piccoli oggetti di pietra lavica, al profumo di zagara in minuscole boccette e…al carrettino siciliano in miniatura. Ormai ne aveva collezionata una ricca serie, non è chiaro se perché le piacesse l’atto di acquistarne uno, scegliendo con cura quello che le sembrava perfetto, con il cavallino bianco, altre volte nero, oppure perché avesse dimenticato che la fila di carrettini, su un ripiano della libreria, era ormai lunghissima.
Poteva dunque vagare per Taormina senza alcun rischio di smarrirsi anche nei vicoli medioevali o su e giù per le piccole scalinate. Non se l’era cavata egregiamente persino a Palermo, da sola nella Vuccirìa, o ad Atene, per le stradine della Plaka?
Ma quel giorno la sua mente era un poco turbata e forse ottenebrata dagli oscuri pensieri che un tempo la tormentavano senza tregua, mentre da almeno un anno si erano sopiti nel suo subconscio grazie a una vita più serena, confortata anche da qualche chiacchierata con lo psicanalista. Se n’era accorta già al mattino, appena si era svegliata con quel mal di testa che ben conosceva: una strettissima morsa alle tempie. «Sarà colpa del vento!» disse fra sé per sminuire la tensione; infatti, nella città in cui viveva, l’arrivo di un forte vento si preannunciava in lei con l’insonnia seguita da un grave mal di testa per tutta la giornata. Ma in Sicilia no, non era mai successo, poiché il vento nella splendida isola spira sempre benevolo in ogni luogo, ora come lieve brezza che scompiglia i capelli, ora come un succedersi di folate che increspano la superficie del mare o fanno leggermente piegare le altissime palme delle “ville”, cioè dei giardini.
Qualcosa dunque non andava bene in lei, ma non aveva voluto rinunciare a Taormina, la cui visita era già stata fissata per quel giorno nel lungo viaggio che stava compiendo con suo marito in quella che denominava “isola del sole”, “isola dei miti”.
Avevano dunque passeggiato a lungo insieme per la vetusta e illustre città greca/romana/medioevale/rinascimentale/barocca, soffermandosi davanti agli armoniosi palazzi signorili, oppure ammirando le facciate e i silenziosi interni delle splendide chiese che testimoniano, nella commistione degli stili, la complessa storia della città attraverso i secoli, anzi, i millenni e denotano, insieme con i palazzi, la presenza in ogni epoca di Signori amanti dell’arte.
Avevano contemplato, quasi senza avere la forza di staccarsene, il Teatro e la magnifica vista sul mare, fin quasi alla Calabria, poiché il cielo era limpido grazie al vento che ne aveva dissolta la foschìa. Il mare era color dell’indaco e l’Isola Bella splendeva come una gemma posata su un drappo increspato e luminoso.
Ma ormai era tempo di ripartire, tornando all’automobile lasciata, come le altre volte, in Via Pirandello¹, adiacente alla Porta Messina. L’avevano quasi raggiunta quando Livia si ricordò del carrettino siciliano: aveva, infatti, dimenticato di cercarlo in qualche altro negozietto poiché nel grande emporio, in cui avevano acquistato il profumo, erano ormai esauriti i carrettini in miniatura. Lasciò frettolosamente il marito promettendo di ritornare il più presto possibile; egli rispose che intanto si sarebbe avviato verso l’auto e l’avrebbe aspettata lì, senza spostarsi da Via Pirandello.
Livia camminò accanto al bel portale senza fermarsi ad ammirarlo, percorse velocemente quasi la metà di Corso Umberto e si ritenne fortunata: in una botteguccia seminascosta vide proprio in vetrina i suoi amati carrettini. Ne comprò uno con il cavallino nero e uscì in fretta per raggiungere il marito.
Quando passò sotto l’arco del portale sentì una scossa e poi un lungo brivido che la percorse tutta. Eppure faceva ancora molto caldo, benché il sole incominciasse a declinare all’orizzonte. Non si ricordò bene dove avessero lasciata l’automobile e dove il marito l’attendesse. Non vedeva parcheggi da quelle parti. Non vedeva il marito, che forse era seduto al volante. Ma dov’era l’auto? Non ne vedeva nessuna accanto a Porta Messina. Si sentiva la testa confusa come se si fosse svegliata da un sonno pesante, anzi, da una notte di febbre alta e d’incubi.
Non ricordava più nulla! Nemmeno il colore e la forma dell’auto presa a noleggio all’aeroporto e usata da almeno una settimana. Soprattutto non ricordava dove l’avessero lasciata molte ora prima.
In quel momento non fu più sicura neppure del suo nome, della sua identità. Sapeva solo che stava cercando un uomo e un’automobile, ma ignorava dove cercarli. Provò un profondo senso di smarrimento, di vero e proprio terrore, tanto che tremava e sudava stringendo in mano il carrettino siciliano chiuso nel cellofan.
     Si fece coraggio e chiese a un passante dove fosse il parcheggio più vicino. Le fu risposto che quasi tutti i turisti lasciavano l’auto a Mazzarò, presso il mare, e salivano a Taormina in funivia. Ma Livia non era salita in funivia; almeno di questo era certa perché ne aveva paura, dopo una brutta esperienza in montagna e la decisione di non usare mai più quel mezzo, anche se per un breve tragitto. Chiese a un altro passante dove fosse il parcheggio più frequentato, escluso quello di Mazzarò. Si sentì dire che si trovava più in basso, sul pianoro a metà della strada a tornanti che conduce a Taormina. Doveva dunque scendere per almeno un chilometro. Che strano! Non ricordava di aver camminato così a lungo in salita dopo aver parcheggiata l’auto, per di più sotto il sole cocente della tarda mattinata di luglio.
Ma il terrore che ormai l’attanagliava la spinse a scendere quasi di corsa per quella strada intasata dalle auto che salivano o scendevano sfiorandosi. Più che aria respirava gas e si sentiva soffocare, presa ormai dal panico e sconvolta dalla mancanza di orientamento. Era già passata quasi un’ora da quando aveva lasciato il marito dicendo che avrebbe fatto molto in fretta.
     Ad un tratto le auto si fermarono tutte ai margini della strada e Livia ne approfittò per camminare più speditamente in discesa, verso il grande parcheggio sul pianoro. Ma la sua lena fu interrotta da un’amara scoperta: da una strada laterale scendeva un carro funebre coperto di rose bianche, seguito da un lungo corteo di auto scure anch’esse ornate di corone floreali. Quando il carro funebre imboccò la strada in salita verso Taormina, Livia riuscì a leggere la scritta d’oro sul nastro che adornava la corona di giunchiglie appesa dietro l’auto: «Giorgio e Michela, marito e figlia dolenti».
Si sentì mancare: erano i nomi di suo marito e di sua figlia! Allora era il suo funerale. Era lei la donna dentro quella bara. Era morta! Era dunque un’ombra che vagava tra i vivi, cercando qualcuno e qualcosa che appartenevano a un mondo da cui era ormai esclusa. Però sentì nella sua mano il carrettino che quasi le pungeva il palmo con le zampette sottili del cavallino. Sentì scorrere delle gocce lungo le gote. Non poteva essere pioggia poiché il cielo era ancora limpido e azzurro. Allora erano lacrime! Quindi era viva perché le ombre sono inconsistenti, non hanno sangue, carne, ossa, occhi, palpebre, lacrime! Il funerale dunque non era suo, ma di una donna che per caso aveva un marito e una figlia con gli stessi nomi dei suoi.
Però il funerale fu causa di una nuova apprensione, quasi di un funesto presagio. Non sapeva più che cosa fare, a chi rivolgersi, dove andare. Era una situazione veramente pirandelliana, soprattutto per il caso singolare dell’omonimia nel funerale. All’improvviso le venne quasi un’illuminazione: Pirandello! Ma perché proprio quel nome le dava un senso di sicurezza, quasi di salvezza? «Pirandello, Pirandello, Pirandello!» ripeteva tra sé e sé, forse ad alta voce. 
«Ma signora, se cerca Via Pirandello deve risalire fino a Porta Messina, non scendere! Però non deve entrare dal portale: la troverà fuori, subito a sinistra.»
Allora tutto le fu chiaro: non si trattava di un vero e proprio parcheggio, ma di una lunga strada in cui, con un po’ di fortuna, si poteva trovare un posto libero per l’auto ed essi, quel mattino, dovevano proprio essere stati fortunati. Certamente l’auto azzurrina (ora lo ricordava bene) e il marito, chissà quanto spaventato per la sua lunga assenza, dovevano essere proprio lì, in Via Pirandello.
Risalì quasi di corsa la strada a tornanti superando anche il corteo funebre che procedeva lentamente. Si fece il segno della Croce ma non guardò i nomi scritti sul nastro della corona di giunchiglie: ormai non le interessava più sapere se fosse un singolare caso di omonimia o se lei, in preda al panico, avesse letto con la fantasia i nomi dei suoi cari, deducendone che era morta e che stava immobile in quella bara. Era certamente viva se correva su per quella strada in salita, dove, proprio alla fine, vide suo marito con un viso stralunato, terrorizzato, quasi tra le braccia di un Carabiniere che cercava di calmarlo e rassicurarlo, promettendo di incominciare subito la ricerca della moglie sparita nel nulla.
Livia si gettò fra le braccia del marito e disse tra le lacrime: «Non ricordavo più nulla. Non sapevo dov’era l’automobile. Sono corsa su e giù verso i parcheggi. C’era anche un funerale!».
«Eppure ti avevo detto che ti avrei aspettata in Via Pirandello! Non mi sarei mosso di lì mentre andavi a comprare il carrettino. Eravamo d’accordo così!»
Si accorse che stringeva convulsamente in mano qualcosa. Aprì lentamente le dita e vide il suo carrettino siciliano con il cavallino nero. Per fortuna era ancora intatto.

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1 – La vicenda narrata è avvenuta prima che fosse costruito il grandissimo parcheggio a più piani ai piedi del colle, sulla cui vetta si arriva con l’ascensore presso Porta Catania, opposta a Porta Messina.





giovedì 2 febbraio 2012

"MIRAGGIO A SEGESTA" in "DEDALUS" n.1


MIRAGGIO A SEGESTA

Il tempio sembrava ancora più bianco nella luminosità accecante del meriggio di luglio; si stagliava nitido controluce sullo sfondo del fitto verde circostante, nella conca formata dalle alture che paiono proteggere in un abbraccio il sacro edificio plurimillenario.
Elena abbandonò molto volentieri i chiassosi turisti seduti ai tavolini del bar sotto il pergolato e s’incamminò sola verso il tempio, senza voltarsi nemmeno impercettibilmente per timore che qualcuno volesse unirsi a lei nella visita. La canicola, per sua fortuna, dissuadeva tutti gli altri che all’archeologia preferivano la frescura sotto la pergola.
Salì lentamente la scala dai bassi gradini, passando accanto ad una grossissima agave nata chissà quando presso quella scalinata, quasi alla sua fine, ove essa s’interrompe e lascia posto a un piccolo pianoro davanti alla facciata orientale del tempio.
Elena salì quasi con esitazione i tre scalini dello stilobate, come se l’edificio, dopo molto più di duemila anni, conservasse ancora il senso arcano dei luoghi consacrati al culto degli dèi. Passando tra le colonne doriche ormai corrose dal vento e dal tempo, ma ancora tanto solide da poter reggere il fregio e il timpano, entrò nel vasto spazio interno del tempio tutto illuminato, poiché la mancanza totale della copertura non opponeva alcuno schermo ai fiammeggianti raggi del sole canicolare che splendeva rutilante a picco sull’edificio, allo Zenit della volta celeste limpida e azzurra, quasi irreale nella sua perfezione cromatica.
Il bel cappello di paglia di Firenze, ornato da un mazzolino di miosotidi, acquistato la domenica precedente nell’isola di Ustica bruciata dal sole, restava tra le sue mani poiché voleva godersi tutta quella luce, tutto quel sole tanto desiderati quando si rattristava nella foschìa o nella nebbia della sua città.
Brevi erano le ombre delle colonne doriche, ormai quasi prive delle scanalature, ed anche il timpano stampava sul terreno polveroso un triangolo tanto sottile da sembrare impercettibile. Un poco più d’ombra si formava tra le colonne del lato lungo, ove la trabeazione correva ininterrotta fino alla facciata occidentale, creando due linee oscure che parevano invitare a sedersi per ripararsi da quella soffocante calura.
Spirava una brezza incredibilmente fresca tra quelle colonne, tanto ristoratrice quanto l’ombra a confronto con l’afa e la luce accecante del tempio vuoto, ove in passato sorgeva la cella arcana per i riti sacri, ora invece soltanto polvere e pietre ammassate alla rinfusa.
Elena si sedette tra la quarta e la quinta colonna di sinistra, superando i primi spazi ombreggiati in cui le pietre erano troppo sbrecciate per offrire un sedile, benché un cane vi dormisse tranquillo e beato godendosi la frescura e la solitudine del luogo, lontano dal chiasso dei turisti seduti giù al bar, sotto il pergolato.
Due solitari felici!
Serena e appagata, Elena si sedette sulla pietra bianca, appoggiò la schiena a una delle due colonne che formavano il suo “rifugio” e sollevò le gambe, poggiando i piedi sul libretto turistico per rispetto verso quel marmo bianco. Guardò lentamente il tempio dall’interno, quasi pietra per pietra, colonna per colonna, capitello per capitello. Se da lontano, nonostante la mancanza della copertura, l’edificio pareva miracolosamente intatto (e, in effetti, è uno dei meglio conservati), da vicino le offese del tempo erano molto visibili quasi dappertutto. La brezza continuava a spirare tra le colonne, mentre fuori, nella luce abbagliante, sugli alberi lungo le pendici del colle impazzavano le cicale, forse a centinaia o a migliaia, tanto sonoro e armonicamente complesso era il loro frinire.
Ad un tratto, però, Elena ebbe l’impressione che quel suono mutasse in qualcosa, forse nel timbro, forse nell’intensità delle voci, quasi che altre cicale dal frinire diverso si fossero aggiunte a quelle che già affollavano la vallata. Ma no! Non erano altre cicale. Ben presto le fu chiaro che si trattava di un suono molto diverso dal frinire chiassoso tra i rami: era il suono di sistri, di cembali, di crotali sempre più vicino e perciò ormai ben distinto dalle voci dell’estate mediterranea.
Elena sporse un poco il capo fuori dalla zona d’ombra delle colonne per capire e, forse, vedere chi producesse quella musica molto ritmata, ora lenta e malinconica, ora vivace e stridula nei toni acuti. Spinse lo sguardo fin fuori del tempio, riuscendo a vedere, tra le colonne della facciata, lo spazio esterno, il piccolo pianoro, l’immensa agave, la scalinata almeno fino a metà.
Ed ecco apparire dapprima solo il capo, poi lentamente il busto, poi la figura intera coperta di una leggera tunica color porpora, mossa da morbide pieghe ed armoniosi drappeggi, una donna dai capelli corvini raccolti sul capo alla foggia dei Greci antichi, ornati di un diadema d’oro che riluceva nella chiarìa meridiana. Reggeva in mano un canestro ricolmo di frutti, tra i quali sporgevano spighe mature e fiori di campo multicolori.
Dietro di lei, a due a due, salivano la scala dodici fanciulle vestite di tuniche bianche, anch’esse con i capelli acconciati alla greca, ma cinti da coroncine di fiori da cui spuntavano spighe disposte a raggiera. Alcune di loro agitavano i sistri, altre battevano ritmicamente i cembali, altre ancora facevano schioccare i crotali accostando abilmente le dita al palmo della mano. La musica seguiva un ritmo lento, pacato, con vibrazioni che si prolungavano nell’aria con un effetto straniante, tranne che nei momenti in cui i sistri, emettendo il loro suono acuto e stridulo, veloce come il frinire delle cicale, superavano fino al parossismo gli altri suoni producendo un senso d’eccitazione.
Il corteo saliva con atteggiamento devoto, gradino per gradino, con lentezza ieratica, finché la sacerdotessa dalla tunica porporina, giunta ormai sul pianoro, si fermò ai piedi dei tre scalini che conducono allo stilobate; si volse verso le fanciulle biancovestite, fermatesi anch’esse dopo essersi disposte a semicerchio sul pianoro, sei alla sua sinistra, sei alla sua destra, e fece un lieve cenno col capo come se volesse ordinare loro di attenderla lì fuori, durante il rito arcano che ella avrebbe celebrato da sola nel tempio.
La musica s’interruppe e le fanciulle rimasero ferme reggendo in mano gli strumenti ormai silenziosi: nelle loro pose armoniose parevano statue greche.
La sacerdotessa entrò nel tempio e avanzò fino al centro; si fermò e, innalzando il canestro di frutti della terra, sembrò offrirli al sole che splendeva nell’ampio rettangolo di cielo azzurro racchiuso tra il colonnato. Rimase ferma in quella postura a lungo, forse pregando sottovoce; poi depose a terra il canestro e ne trasse fuori le spighe dorate e i fiori vivacemente colorati che, ruotando lentamente il corpo fiammante di porpora, gettò attorno a sé ad uno ad uno, alternati alle spighe, in un cerchio perfetto.
Dopo aver fissato a lungo il sole, sopportandone l’intensa luce con una forza che probabilmente le veniva infusa dall’estasi mistica, levò in alto le braccia con il gesto tipico dell’orante e iniziò un canto in forma di litania, in cui ripeteva spesso una parola brevissima, forse un’invocazione, pronunciata con solenne intensità: «Iò! Iò!».
Terminato il canto con una triplice invocazione, la sacerdotessa uscì lentamente dal tempio silenzioso, fece un cenno alle fanciulle perché riprendessero la processione e si diresse verso la scalinata. Postesi in fila dietro di lei, le fanciulle ricominciarono a suonare i loro strumenti e scesero anch’esse, seguendola a passo a passo finché, giunte ormai in fondo alla scala, non scomparvero totalmente alla vista. I loro corpi, mentre scendevano, erano diafani, tanto che dietro di loro appariva in tutta la sua concretezza l’immensa agave, che spandeva le sue lunghe e grasse foglie accanto alla scala.
Elena aveva ammirato tutto in silenzio, attonita ma non incredula; era quasi estasiata come se avesse partecipato anche lei al sacro rito in onore di una divinità protettrice della terra, dell’agricoltura e delle stagioni. Forse Demetra o un’ignota divinità indigena? Ma che cosa importava in quel momento unico, quasi fuori del tempo!
Era ancora abbandonata a quello stato d’animo tra la smemoratezza di sé, la meraviglia e una certa commozione quando la riscosse la voce improvvisa di uno dei turisti, che forse l’aveva notata mentre saliva al tempio da cui non era più discesa: «Signora, la navetta verso la stazione ferroviaria sta per partire. Dovrebbe scendere subito con me. Si era addormentata in questo bel posto?». «Credo proprio di sì.» rispose Elena mentendo: non voleva assolutamente rivelare a uno sconosciuto il suo miraggio, perché di miraggio si trattava certamente.
«Il mio cappello!» esclamò quando raccolse il libretto sul tempio di Segesta accanto al quale aveva posato il suo bel ricordo di Ustica, badando di non calpestarlo con i piedi quando si era rincantucciata comodamente tra le due colonne.
«Sarà volato via! Con questo venticello è facile.» replicò il turista. «Ora lo cerchiamo lungo il pendio, ma facciamo presto, signora, altrimenti rischiamo di perdere la navetta!»
Elena corse in fretta per arrivare da sola prima di lui. Aveva visto il suo cappello poco più giù in un piccolo prato pianeggiante. Lo raggiunse, allungò la mano e rimase attonita: accanto al mazzetto di miosotidi c’erano tre spighe dorate e tre fiori di campo rossi, tre grossi papaveri. I petali erano freschi come di fiori appena colti e le spighe erano turgide.
      Raccolse il cappello e tenne ben nascosti dietro di esso i papaveri e le spighe. Il dono della sacerdotessa di Segesta era un segreto suo, soltanto suo.

Giorgina Busca Gernetti, in Dedalus n. 1, Puntoacapo, Novi Ligure 2011